Roberto Vecchioni, discorso sulla felicità e sull’amore

La vita che si ama. Storie di felicità è il titolo di un libro di Roberto Vecchioni. Trecentosettanta ragazzi, un teatro stracolmo, tanta attesa e l’anima che si arricchisce quando a parlare è un poeta. Il poeta per eccellenza della canzone italiana, Roberto Vecchini. Canta l’amore Roberto Vecchioni, ma questa volta al Teatro Città di Pace di Caserta, ha portato (nell’ambito della terza edizione della rassegna del Liceo classico Manzoni Tradizioni & tradimenti, nata da un’idea di Massimo Santoro) la sua parola parlata, la sua smisurata cultura dei classici e del mito.

Ad ascoltarlo dal fondo di una sala affollata da tanti giovani, comprendi quanto siano stati fortunati quei ragazzi che lo hanno avuto come professore nei loro licei.

“La cultura è un mezzo per esprimere se stessi”, ha esordito la dirigente dell’Istituto Manzoni di Caserta Adele Vairo e oggi in questo teatro di periferia la cultura è stata la protagonista in assoluto. Ad introdurre il cantautore, che per l’occasione non ha intonato neanche una nota, anche se le sue parole sono state allo stesso tempo poesia e musica, il giornalista Luigi Ferraiuolo.

Parte dalla poesia Vecchioni. Lo spunto è la sua canzone Irene, perché sono i “poeti che spostano i fiumi con il pensiero” (come canta in Sogna, ragazzo sogna), sottolineando che ci sono due forme di poesia: una è quella delle persone che spostano i fiumi con il pensiero e quella è la poesia vera. Poi c’è la poesia che rovina la poesia, come alcune canzoni. “Quando scrissi quella canzone era il 1975 e ce l’avevo con la poesia. Oggi la poesia riguarda tutto ciò che sembra morto dentro di noi”. E incominciando a parlare di poesia, avverte i ragazzi che comprendendo Dioniso non stanno facendo un corso inutile come sta facendo il resto del mondo, perché chi non capisce Dioniso rischia di finire male.

Da Platone a Euripide, da Leopardi a Chomsky, da Einstein a Picasso, il centro del ragionamento del nostro poeta è incentrato sul pensiero di Socrate e sul dialogo con il giovane Critone. Rapisce la narrazione di un Critone che, affascinato dal suo maestro Socrate, un uomo anziano e dimagrito ma integro moralmente, si reca da lui per incitarlo a fuggire perché accusato ingiustamente. Socrate, però, non gli dà retta. “Socrate non dà risposte. Egli fa solo domande”. E questo è un tema di grande attualità, perché più si fanno domande e più troviamo l’umanità; ed oggi sembra essere scomparso sia il dovere di interrogarsi che quello di dare risposte coerenti. Socrate era accusato anche di non credere agli dei, ma in realtà egli, per la prima volta nella storia, fa comprendere che “c’è qualcosa di impalpabile che agisce sugli uomini non obbligandoli, ma lasciandoli liberi”.

In perfetta coerenza con se stesso, Socrate non scappa e la sua morte o il suo continuare a vivere non fanno differenza. Socrate non scapperà mai, perché quelle leggi le ha volute lui. Egli accetta la condanna perché quella, sottolinea Vecchioni, è “roba da niente davanti alla grandezza umana”. E mentre gli altri piangono, egli beve la sua cicuta tutta di un fiato. La morte di Socrate, dunque, è la vittoria di un germe che noi ci portiamo dietro. Per Vecchioni quel “so di non sapere” di Socrate vuol dire che la vita è un continuo cercare.

In una sua canzone, La stazione di Zima, infatti, Vecchioni ripropone la questione della vita dell’uomo nel rapporto con l’impalpabile dell’universo. La ripropone, a mio avviso, proprio in chiave socratica, quando afferma “[…] sono lieto di apprendere che hai fatto il cielo e milioni di stelle inutili come un messaggio, per dimostrami che esisti, che ci sei davvero: ma vedi, il problema non è che tu ci sia o non ci sia il problema è la mia vita quando non sarà più la mia, confusa in un abbraccio senza fine, persa nella luce tua, sublime, per ringraziarti non so di cosa e perché […]”.

Poeta, professore, filosofo e cantautore, Roberto Vecchioni non può che coinvolgere appassionatamente la platea di ragazzi che non si perde neanche una sillaba della coinvolgente conversazione e che esplode in un fragoroso applauso quando rivolto a loro dice “Voi siete i trecento di Leonida, mentre fuori da qui ci sono trecentomila persiani che vi romperanno le scatole”. E cresce, in un pacato trasporto emotivo, l’incitamento, l’esortazione a cercare la verità che li renderà sicuri di loro.

Appassiona quando parla del teatro che è mondo, che è riproposizione del mito della vita. Quando afferma che “se per i cristiani Cristo muore ogni volta che si celebra il rito ecclesiastico, per i greci il teatro è tutto, è universale e lo è ancora di più la tragedia”. Vecchioni di Edipo a Colono (Sofocle) restituisce una interpretazione che non può che suggestionare positivamente chi ascolta seduto in platea: “Edipo si avvia con le due bambine nel bosco, perché sa che dal bosco scenderà una luce. Una sola entità potrà dare luce ed Edipo lo sa come sa che ci sarà una sola parola che libererà il mondo e questa parola è “amore”.

Il melodramma, l’opera e tragedia greca hanno una grande e precisa relazione tra loro. Nella tragedia greca c’è tutto. C’è ogni rapporto possibile che l’uomo può avere con la vita, una specie di prontuario della vita. Ed il discorso sulla felicità attraversa Agamennone, Eschilo, Prometeo e i cori che danzano, seguendo un ritmo. E ci sono le domande a cui il mito dà una risposta. Una risposta al perché siamo così civili, al perché ci esprimiamo, al chi ci ha dato la parola. Ed è il mito a farci capire che c’è Prometeo a dirci che nella scienza c’è una sorta di “messa in opera” (téchne-arte) dalla quale derivano tutte le funzioni e per la quale prima si impara e poi si costruisce.

Parlando di Zeus lo definisce “uno che nella vita non ha fatto mai nulla” e che a risolvere i problemi è sempre una donna. È la moglie, dice Vecchioni, che comanda, perché l’intelligenza è donna. Atena? “Una specie di robot, senza tette e senza culo”. È il mito la ragione per la quale quello che conta è il cuore, il cuore centro pulsante dell’uomo.

Ma la lezione di Vecchioni è sull’amore, sul tempo e la felicità. “C’è un tempo orizzontale che è di tutti e poi c’è un tempo verticale che è solo nostro”. Ed è un tempo che incita a vivere. Per il poeta la perfezione non esiste, non è adatta all’uomo che deve accettare le proprie debolezze e deve anche saper rendere visibili le proprie emozioni. Non bisogna vergognarsi delle proprie emozioni così come non bisogna avere timore di farsi vedere piangere. Piangere, da qualche tempo gli uomini non piangono più, anche davanti a grandi tragedie. Nella storia, nella poesia e nella letteratura troviamo il pianto di molti. Lo troviamo nell’Orlando Furioso di Ludovico Ariosto, in poeti come Leopardi, in Dante nella Divina Commedia e in tanti altri poeti e scrittori, ma il pianto sembra non essere più di questa epoca.

Ed ecco il discorso sull’amore: “L’amore è un dramma, perché se l’amore si acquieta non è più amore e diventa fratellanza e sappiate che «l’amore che spacca le vene non ha età”. Ed è molto convincente e coinvolgente il Maestro quando accompagna per mano l’uditorio a comprendere come sia il “tempo verticale” a condurci verso la felicità. Felicità dovrebbe essere lo stare bene con il mondo, ma per Vecchioni è un po’ poco, perché “la felicità è essere vivi, innamorarsi, non è solo ridere”. E a questo lega lo spazio sospeso della poesia, perché “la poesia è anche lo spazio tra una parola e l’altra” e se vivere è di per se stesso essere felici, la vita è nella tempesta, è nel divenire delle istanze dell’amore. Per questo i periodi che gli altri chiamano felicità per Vecchioni sono solo delle “pause nella tempesta”, come gli spazi vuoti delle parole nelle poesie.

Parlando di Leopardi, inverte il paradigma pessimistico ed efficacemente fa comprendere che “se non ci fosse stata la quiete non sarebbe venuta la tempesta”. Un concetto che spiega con la trasgressione di Adamo il quale ha due sole possibilità: cogliere o non cogliere quel frutto proibito. Adamo sceglie di coglierlo, rinunciando al paradiso. Se Adamo avesse scelto il paradiso per tutta la vita gli sarebbe mancata la libertà, perché non avrebbe potuto fare altro che essere felice. La sua scelta conduce ad una vita complicata, ma libera. È questa una visione altra che rimanda alla moltitudine che è fuori dal teatro, a quelli che non capiranno mai che Adamo è il primo “romantico ribelle” della storia. E qui il discorso sulla felicità ritorna a Prometeo che toglie agli uomini la paura della morte, mettendo nel loro cuore “l’essenza cieca”. E sarà questa essenza a dare all’uomo la possibilità di restituire un senso alla sua vita senza pensare alla morte, che pure verrà. “La vita non è un’anticamera, ma il salone”. Stronca, manda in frantumi, definendola una grande stronzata, il “ricordati che devi morire”, perché come insegna Socrate, “le cose che non muoiono mai sono in un’anima che non muore mai”.

E che dire del pathos? Il mondo non può essere perfetto e la nostra vita, proprio come nella grandezza della tragedia greca, è pathos. Vecchioni rivela ai ragazzi che canta da quarantadue anni e che ogni volta che sale su un palco gli manca il fiato, perché quello è ogni volta un episodio nuovo, è pathos.

Concludendo, possiamo dire davvero che quei ragazzi che hanno reinterpretato, mettendo in scena sul palco del nostro teatro di periferia alcuni capitoli del suo libro La vita che si ama. Storie di felicità, sarebbero stati davvero ben felici e fortunati ad avere come insegnante di lettere un poeta come Roberto Vecchioni, un maestro che davanti alla porta della sua classe raccomandava a se stesso di uscire esausto e sfinito da quell’aula, altrimenti sarebbe stato come se non avesse fatto nulla. Anche questo è il pathos. Alla prossima lectio magistralis “pastore errante nell’aria che scrive lettere d’amore e che vive come le cose che dice.”

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